venerdì 11 maggio 2007

Quegli Avieri massacrati senza pietà

OPERAZIONE ONUC

1. ANTEFATTO
La sanguinosa guerra civile, conseguente alla dichiarazione di indipendenza del Congo dal Belgio, richiedeva l’intervento delle Nazioni Unite per garantire il controllo del paese da parte del governo legittimo. Dall’11 luglio la 46ª Brigata Aerea cominciava a volare le prime missioni sui cieli del Congo e inizialmente per evacuare i profughi italiani e per trasportarvi generi di soccorso. Successivamente il Governo Italiano risponderà positivamente alla richiesta dell’ONU di utilizzare un nostro Contingente nell’ambito della forza multinazionale di pace.

2. LA MISSIONE
Nasceva così, il 22 agosto 1960 la Sezione 46ª Brigata Aerea Congo, trasformata poi dallo Stato Maggiore dell’Aeronautica, con il Foglio d’Ordini Supplemento n° 28 del 7 novembre 1960, in Distaccamento 46ª Brigata Aerea Congo. Per assolvere i delicati compiti il distaccamento veniva dotato di dieci velivoli, su cui nel frattempo erano state applicate le insegne dell’ONU per distinguerli dai C119G degli ex dominatori belgi. Il distaccamento doveva assicurare il 70% dell’attività globale di trasporto aereo collegando e rifornendo i vari presidi ONU sparsi sul vastissimo territorio congolese. Gli avvicendamenti tra il personale della 46ª Brigata Aerea presso il distaccamento erano stati previsti ogni sei mesi, ma poi dato il clima particolarmente difficile furono ridotti a due mesi di permanenza. Nel frattempo infatti, vi era stata la prima vittima: il Maresciallo Motorista Mario Lamponi del 98° Gruppo, stroncato da un infarto. Il 1961, e precisamente il 15 di febbraio, si apriva con la tragica notizia della morte di tre aviatori dell’Aerobrigata, a seguito di un incidente di volo verificatosi nelle fasi di decollo da Luluabourg. Si trattava del Capitano Pilota Sergio Celli, del Tenente Pilota Dario Giorni e del 1° Aviere Montatore Italo Quadrini, i primi membri di un equipaggio dell’Aerobrigata a perdere la vita in Congo a seguito di un incidente di volo, ma anche i primi a perire con il paterno C119. Solenni onoranze venivano tributate alle salme dei tre aviatori al loro arrivo il 25 febbraio a Ciampino, ma non sarebbero state, purtroppo, le sole provenienti dal Congo.

3. LA STRAGE DI KINDU
Purtroppo lo scenario congolese, lungi dal normalizzarsi, registrava, nel 1961, segnali sempre più inquietanti e tragici tra i quali l’abbattimento del DC6 con a bordo il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Dag Hammarskjold. Un paese nel caos più totale in uno scenario di violenze e sopraffazioni frutto anche dei grossi interessi internazionali per lo sfruttamento delle ingenti risorse minerarie del paese. Il 25 settembre 1961, il Caporale Raffaele Soru, della Croce Rossa Italiana, perdeva la tragicamente la vita in uno scontro a fuoco fuori dell’Ospedale n° 10 a Alberthville. In questo scenario di violenze e scontri, la mattina dell’11 novembre 1961 decollavano da Kamina alla volta di Kindu, aeroporto situato nella regione del Kivu al confine con il turbolento Katanga, due C119 destinati a rifornire la locale guarnigione di Caschi Blu Malesi. Si trattava dell’India 6002 (Lyra 5) al comando del Maggiore Pilota Amedeo Parmeggiani e con a bordo il Sottotenente Onorio De Luca, il Tenente Medico Francesco Paolo Remoti, il Maresciallo Motorista Nazzareno Quadrumani, il Sergente Marconista Francesco Paga, il Sergente Elettromeccanico Martano Marcacci e il Sergente Maggiore Montatore Silvestro Possenti, e dell’India 6049 (Lupo33) al comando del Capitano Pilota Giorgio Monelli, con il Sottotenente Pilota Giulio Garbati, il Maresciallo Motorista Filippo Di Giovanni, il Sergente Marconista Antonio Mamone, il Sergente Maggiore Elettromeccanico Armando Fabi ed il Sergente Maggiore Montatore Nicola Stigliani. Atterrati a Kindu dopo le 13:00 e scaricato il materiale, tra cui due piccoli mezzi blindati Ferret dell’ONU, i due equipaggi si recavano presso la mensa ONU situata a circa un chilometro dall’aeroporto, malgrado fossero stati sconsigliati dal comandante della guarnigione malese, Maggiore Dowe, di uscire dal campo per la presenza in zona di truppe ammutinate. Le insegne ben visibili dell’ONU sui velivoli e sulle combinazioni di volo ed i buoni rapporti sempre avuti con la popolazione erano sicuramente alla base della decisione presa dai nostri aviatori, convalidata dal fatto che anche la dotazione di armi individuali rimaneva a bordo dei velivoli. Purtroppo verso le 16,30, mentre stavano ancora pranzando, facevano irruzione nella mensa una ottantina di ribelli dell’Armata Nazionale Congolese seguaci del Colonnello Pakassa che, dopo aver immobilizzato il personale di guardia malese lo stesso ufficiale che li aveva accompagnati, li assaliva e li malmenava trascinandoli nella prigione della città. Testimoni riferirono che già in quel frangente uno degli aviatori fosse stato abbattuto per la sua reazione. Rinchiusi in uno stanzone del carcere, poche ore dopo venivano trucidati selvaggiamente a raffiche di mitra. Da più parti si sarebbe cercato successivamente di accreditare la tesi che i nostri aviatori erano stati scambiati per mercenari belgi, ma in realtà questo drammatico episodio era la chiara testimonianza dell’anarchia che regnava ormai in Congo e dell’impotenza sia dell’ONU che del governo di Leopoldville dinanzi all’ammutinamento di interi reparti dell’Armata Nazionale Congolese. Tuttavia per venire a conoscenza della terribile notizia ci sarebbe voluto ancora qualche giorno, ossia il tempo necessario per portare a termine le convulse ed estenuanti trattative avviate dal valoroso Dottor Pagnanelli e dagli altri funzionario delle Nazioni Unite subito inviati a Kindu. L’angoscia e la speranza dell’attesa avevano però durata breve, poiché alle ore 13,00 del giorno 16 febbraio 1961 il giornale radio dava il drammatico annuncio: “i tredici Aviatori Italiani impegnati in una missione di pace in Congo erano stati uccisi”. La notizia faceva subito il giro del mondo, suscitando ovunque grande emozione e sentimenti di pietà per l’ingiusta sorte toccata a questi uomini. Nella mattina del 17 novembre una lunga e mesta processione di studenti pisani raggiungeva l’aeroporto per deporre fiori ai piedi del pennone della bandiera, mentre si moltiplicavano un po’ ovunque le iniziative anche di semplici cittadini per testimoniare all’Aerobrigata ed ai familiari dei caduti il cordoglio e la solidarietà del popolo italiano. Il giorno successivo arrivava da Roma il Ministro della Difesa Giulio Andreotti per portare la parola del governo e presenziare al solenne rito funebre celebrato in Duomo dall’Arcivescovo di Pisa, Monsignor Camozzo, in memoria dei caduti. Mentre si perdeva la speranza di ritrovare quei poveri corpi per dar loro una civile sepoltura, un’altra tragedia si consumava nel cielo del Congo. Il 17 novembre il velivolo Lyra 10, in volo dall’Italia per il paese africano con a bordo la posta ed il vettovagliamento ed i pacchi inviati dalle famiglie era costretto ad effettuare un atterraggio di emergenza su di una radura nei pressi del Lago Tanganika a causa di avaria al motore destro. La manovra veniva eseguita correttamente, ma disgraziatamente durante la corsa al suolo il velivolo imbardava violentemente arrestandosi contro un grosso tronco d’albero. Nell’urto trovavano la morte il Capitano Pilota Elio Nisi, il Maresciallo Pilota Giovanni De Risi, il Maresciallo Motorista Tommaso Fondi ed il Maresciallo Marconista Giuseppe Saglimbeni; gli altri componenti dell’equipaggio (Sergente Pilota Mario ferrari, Maresciallo Elettromeccanico Salvatore Giammona, Sergente Montatore Luigi Fredducci) e di due passeggeri (militari del Nord Africa) riportavano ferite varie e venivano ritrovati due giorni più tardi presso una località sede di una missione religiosa, che avevano raggiunto dopo una estenuante marcia attraverso la foresta. Nel giro di soli tre giorni l’Aerobrigata aveva pagato un prezzo altissimo, perdendo tre equipaggi di volo ed un velivolo. Il 5 dicembre venivano celebrati a Pisa i funerali anche di questi quattro sfortunati aviatori, ma delle salme dei loro colleghi caduti a Kindu sembrava non esserci più alcuna traccia. Bisognerà attendere il successivo 1962 quando, a quattro mesi di distanza dall’eccidio, il giorno 23 febbraio era possibile recuperare i corpi dei caduti. Ciò grazie all’opera del cappellano dell’Aerobrigata, Don Emireno Masetto, che aveva sostenuto le ricerche da parte dei nostri connazionali residenti a Kindu, in evidente controtendenza all’orientamento politico del momento. I corpi erano stati risparmiati allo scempio grazie allo slancio di un graduato della polizia congolese (Sergente Maggiore N’Gombe) che, poco dopo la strage, li aveva caricati su di un camion e seppelliti di nascosto in una fossa comune nei pressi del cimitero di Tokolote. Il giorno 10 marzo le salme, dopo le formalità relative all’inchiesta in corso, venivano imbarcate su un C-124 dell’USAF, dopo aver ricevuto solenni onori. Il velivolo faceva scalo a Tripoli, dove le salme venivano trasbordate su di un C130 della 322ª Air Division. Il quadriturbina giungeva a Pisa il giorno 11 marzo alle ore 16:00 spegnendo i motori dinanzi alla palazzina comando mentre le note del Piave intonate dalla banda del Maestro Di Miniello dilagavano sul piazzale in un’atmosfera di grande commozione. Il giorno successivo, alla presenza delle più alte cariche dello Stato, veniva celebrato il solenne rito funebre, al termine del quale le salme trovavano provvisoria dimora nella cripta della chiesa di S. Caterina. La RAI intanto aveva lanciato la “catena della fraternità”, una sottoscrizione pubblica per raccogliere i fondi con cui costruire un tempio votivo ai margini dell’aeroporto di S. Giusto. L’incarico progettuale fu affidato al Professor Giovanni Michelucci, uno dei migliori architetti italiani dell’ultimo mezzo secolo. Sviluppando il tema “l’odio divide e l’amore unisce”, Michelacci realizzava quello che può essere definito il più bel tempio aeronautico esistente in Italia. Il 19 giugno 1962, con il rientro a Pisa degli ultimi tre velivoli si concludeva l’attività operativa per il Congo. Il bilancio constava di duemilacentosettantasette sortite per un totale di 9.165,05 ore di volo, 9.328.201 libbre di materiale e 8.100 passeggeri trasportati, tutto questo a prezzo di 21 vite umane, 6 feriti e 3 velivoli distrutti. Al di là di ogni possibile valutazione si poteva esser certi che la 46ª Aerobrigata si era conquistata fama e prestigio in tutto il mondo! L’anno successivo, il 13 marzo 1963 il tempio di Kindu veniva consacrato ed il giorno successivo con un mesto corteo attraverso le vie di Pisa sorvolato da una splendida formazione di C119, vi venivano traslate le salme di undici dei tredici aviatori, in quanto quelle del Tenente Medico Remoti e del Sergente Maggiore Stigliani erano state reclamate dalle rispettive famiglie.

2 commenti:

Patriota ha detto...

Certamente la missione ONUC nell'ex Congo Belga ha segnato profondamente la coscienza di quanti, fino ad allora, ritenevano le nostre Forze Armate adatte solo per fare sfilate. Con la strage di Kindu, il mondo si è reso finalmente conto che l'Italia è presente, che esiste e che è degna del ruolo che ricopre. E quei tredici Avieri hanno certamente saputo cosa abbia volute dire sacrificarsi per la loro Patria: l'ITALIA!

XXX ha detto...

Hai colto nel segno, Patriota! Oggigiorno sono in pochi coloro che considerano le Forze Armate Italiane per quello che sono: una grande risorsa per la Nazione, in grado di elevare l'Italia su un piano superiore per quanto riguarda la politica estera!

"Dulce et decorum est pro Patria mori"